Friday, February 28, 2014

QUEBEC - Il dibattito sulla legge contro i simboli religiosi


L'EDITORIALE - Carta dei valori, un palliativo pechista per mascherare i fallimenti economici

Non si capisce (o forse è fin troppo evidente) per quale remoto e sfuggente motivo il governo pechista del Québec si ostini a incentrare tutto il dibattito politico sulla ‘Carta dei Valori’, una legge dello Stato (per fortuna ancora in fase di discussione) che mira a disciplinare l’abbigliamento dei dipendenti statali e parastatali (ospedali, tribunali e scuole) mettendo al bando simboli religiosi “sconvenienti” (perché ostentano una fede che potrebbe infastidire l’intelocutore di turno), come hijab, burqa, kippa, turbanti, sikh e... croci cristiane. Un vero e proprio “proibizionismo estetico” in nome di una laicità e neutralità dello stato nella loro accezione più oscurantista e repressiva. In pratica, lo Stato pretende che, nell’esercizio delle proprie funzioni, i dipendenti si spoglino delle proprie convinzioni religiose, della propria cultura, per diventare degli automi asettici e acefali. Uno “sdoppiamento di personalità”, solo per poche ore, 8 in tutto. Da vivere in apnea. Per poi tornare a pensare liberamente. E a decidere cosa indossare senza diktat del governo. Governo che confonde deliberatamante (e clamorosamente) due piani distinti e separati: la laicità dello Stato come ente, aspirazione legittima e opportuna, con quella dei suoi funzionari. Lo Stato deve essere laico e neutrale nei suoi “fini” (atti, leggi, regolamenti, burocrazia, amministrazione), non nei suoi “mezzi”: uomini e donne che, nel rispetto del buonsenso e della pubblica decenza e convenienza, hanno il sacrosanto diritto di vestirsi come meglio credono. Non ci risultano ricerche, studi o, peggio ancora, episodi di violenza e intolleranza che possano giustificare un tale “accanimento” del partito al potere per una ‘Carta’ di cui nessuno avverte la necessità. E che invece ha acuito le tensioni sociali fino a risvegliare gli istinti più beceri tra le diverse anime religiose che caratterizzano il mosaico sociale quebecchese. Un effetto collaterale stigmatizzato dalla stessa Chiesa Cattolica, scesa (finalmente) in campo con un ‘pezzo da 90, l’arcivescovo di Québec Gérald Cyprien Lacroix, che ha parlato di “misura superata”. Chiesa che sembra aver assunto il ruolo di opposizione, facendo le veci di un Partito Liberale incapace di formulare delle controproposte solide, coerenti e articolate. Tant’è che il PQ ha imposto senza discussioni la sua strategia: consultazioni pubbliche per un totale di 250 ore di audizioni, 3 volte alla settimana, fino alla metà di aprile. Quando il governo prenderà atto delle conclusioni, senza però essere obbligato ad adottarle. Un palliativo, insomma, un “dose di oppio” per il popolo quebecchese, un modo per mettere in quarantena tutto il resto, facendo della Carta una sorta di ossessione collettiva, per distogliere l’attenzione da un quadro economico piuttosto allarmante, che il governo ha tutto l’interesse a mascherare. Le cifre parlano chiaro. Il tasso di occupazione del Québec si attesta sul 60,3%, al 7º posto tra le Province Canadesi (sono 10 in tutto), con l’Alberta in testa col 69,4%. Il numero di lavoratori a tempo pieno è diminuito dell’1.73% tra gennaio e dicembre 2013: è il dato peggiore del paese, mentre l’Alberta vola con un +2.2 %. La durata media della disoccupazione è pari a 24.1 settimane, la peggiore in Canada, 10 settimane in più di quanto si registra in Alberta. Solo l’1% degli imprenditori della Belle Province ha assunto nel corso del primo trimestre del 2014, contro l’8% in Ontario e nelle province atlantiche, il 12% in Canada e addirittura il 17% nelle province dell’ovest. Secondo le ultime statistiche, il reddito pro capite quebecchese è il più debole del Paese, ad eccezione dell’Isola del Principe Edoardo. Tra le province atlantiche, infine, sarà il Québec a registrare la crescita economica più lenta: l’1.8% contro il 2.3% in Canada e il 3.2% in Alberta. Senza trascurare lo stato pietoso in cui versano le infrastrutture stradali (il 56% delle quali risalgono agli anni ‘60-’70) e le inquietanti rivelazioni che stanno emergendo dalla Commissione Charbonneau su un livello di corruzione quasi patologico che ha attecchito (e in profondità) nelle sfere più alte del potere.
Insomma, le priorità sono altre e urgenti: per disciplinare l’ “abbigliamento di stato” basterebbero i tribunali (nei casi più eclatanti), lasciando il Parlamento libero di legiferare sui temi veramente decisivi per il futuro della Provincia.


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