Wednesday, March 12, 2014

Québec - Il PQ si affida al voto sognando l’indipendenza




Alla fine Pauline Marois ha ceduto: era diventata irresistibile la tentazione di sciogliere un’Assemblea nazionale troppo litigiosa e, soprattutto, non allineata all’agenda (tutta schiacciata sull’identità nazionale) di un governo minoritario, ma particolarmente ambizioso. ‘Sedotta’ dai sondaggi che danno il PQ ad un passo dalla maggioranza relativa (grazie soprattutto al consenso ‘bulgaro’ tra i francofoni), la First Lady quebecchese ha sciolto le riserve decidendo di ricorrere alle urne per la 5ª volta in 11 anni. Una media quasi italiana! Dopo soli 18 mesi dal voto del settembre 2012, che ha segnato la fine dell’epoca Charest, i cittadini della Belle Province saranno richiamati al voto per un’elezione di cui pochi avvertono l’opportunità e la necessità. Senza contare che, a rimetterci, saranno proprio i contribuenti, visto che il Direttore generale delle elezioni (DGE) ha fatto già sapere che le elezioni del prossimo 7 aprile costeranno ben 88 milioni di dollari. Per la gioia (si fa per dire!) delle 26 mila persone che a febbraio hanno perso il posto di lavoro. E alla faccia dei 2,5 miliardi $ di deficit annunciati dal Ministro delle Finanze Nicolas Marceau lo scorso novembre, un buco che lo stesso governo si era impegnato a contenere tagliando la spesa per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015-2016. Senza contare che era stato proprio l’esecutivo pechista, nel giugno 2013, a proporre una legge per fissare le elezioni ogni 4 anni, al netto di eventuali sfiducie sul Bilancio. Intanto, in 44 giorni di pre-campagna elettorale Pauline Marois ha già fatto 215 annunci di investimenti per un totale di oltre 2 miliardi di dollari. Gettando alle ortiche, per “manifesta improduttività”, una legislatura che sarà ricordata per la sua inconcludenza e inadeguatezza. I pechisti dicono per colpa della costante “guerriglia ostruzionistica” messa in campo dalle opposizioni, che invece contrattaccano puntando l’indice contro i provvedimenti irricevibili calendarizzati dal governo. Che, invece di puntellare un’economia in affanno (a dicembre, l’agenzia di rating Fitch ha declassato l’outlook quebecchese da stabile a negativo), ha deciso di monopolizzare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla Carta dei valori, una legge dello Stato controversa – e ancora non approvata - che mira a disciplinare l’abbigliamento dei dipendenti pubblici mettendo al bando i simboli religiosi “sconvenienti”, in nome della parità tra uomo e donna e della neutralità dello stato laico. Una discussione snervante, ma soprattutto lontana anni luce dalla cruda realtà, che vede la società quebecchese  fare della diversità religiosa, a casa come al lavoro, un valore aggiunto, una fonte di ricchezza, una prova di maturità. La verità è che, ancora una volta, l’interesse generale passa in secondo piano, schiacciato dall’opportunismo politico di un partito che ha priorità diverse da quelle di chi affronta ogni giorno una realtà fuori dagli slogan e da progetti tanto idealistici quanto anacronistici. In una parola: fuori dalla storia. Il PQ ha gettato la maschera, rivelando l’obiettivo che gli sta veramente a cuore: incassare la maggioranza parlamentare per rafforzare la questione identitaria e magari rispolverare anche le velleità indipendentistiche. Puntando, quindi, su provvedimenti ritenuti ‘sine qua non’, come la Carta dei valori ed il ‘Libro bianco’ sull’avvenire della Belle Province: temi sui quali, fino a ieri, c’è stato il “veto” dei partiti di opposizione. Un argine parlamentare, l’ultimo, che potrebbe crollare, se il 7 aprile gli elettori daranno alla Marois un mandato pieno e incondizionato. In questo caso sarebbe il popolo sovrano l’ultimo baluardo contro la deriva indipendentista del PQ: secondo un recente sondaggio di Radio Canada, solo il 39% direbbe sì, contro il 61% schierato per il no. Se lo stesso risultato fosse confermato da un eventuale referendum, sarebbe il terzo tentativo andato a vuoto, dopo quelli dell’ ‘80 e del ‘95.

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