Alla
fine Pauline Marois ha ceduto: era diventata irresistibile la tentazione di
sciogliere un’Assemblea nazionale troppo litigiosa e, soprattutto, non
allineata all’agenda (tutta schiacciata sull’identità nazionale) di un governo
minoritario, ma particolarmente ambizioso. ‘Sedotta’ dai sondaggi che danno il
PQ ad un passo dalla maggioranza relativa (grazie soprattutto al consenso
‘bulgaro’ tra i francofoni), la First Lady quebecchese ha sciolto le riserve
decidendo di ricorrere alle urne per la 5ª volta
in 11 anni. Una media quasi italiana! Dopo soli 18 mesi dal voto del settembre 2012, che ha segnato la fine dell’epoca
Charest, i cittadini della
Belle Province
saranno richiamati al voto per un’elezione di cui pochi avvertono l’opportunità
e la necessità. Senza contare che, a rimetterci, saranno proprio i
contribuenti, visto che il Direttore generale delle elezioni (DGE) ha fatto già
sapere che le elezioni del
prossimo 7 aprile costeranno ben 88 milioni di dollari. Per la gioia (si fa per
dire!) delle 26 mila persone che a febbraio hanno perso il posto di lavoro. E
alla faccia dei 2,5 miliardi $ di deficit annunciati dal Ministro delle Finanze
Nicolas Marceau lo scorso novembre, un buco che lo stesso governo si era
impegnato a contenere tagliando la spesa per raggiungere il pareggio di
bilancio nel 2015-2016. Senza contare che era stato proprio l’esecutivo
pechista, nel giugno 2013, a proporre una legge per fissare le elezioni ogni 4
anni, al netto di eventuali sfiducie sul Bilancio. Intanto, in 44 giorni di
pre-campagna elettorale Pauline Marois ha già fatto 215 annunci di investimenti
per un totale di oltre 2 miliardi di dollari. Gettando alle ortiche, per
“manifesta improduttività”, una legislatura che sarà ricordata per la sua
inconcludenza e inadeguatezza. I pechisti dicono per colpa della costante
“guerriglia ostruzionistica” messa in campo dalle opposizioni, che invece
contrattaccano puntando l’indice contro i provvedimenti irricevibili
calendarizzati dal governo. Che, invece di puntellare un’economia in affanno (a
dicembre, l’agenzia di rating Fitch ha declassato l’outlook quebecchese da
stabile a negativo), ha deciso di monopolizzare l’attenzione dell’opinione pubblica
sulla Carta dei valori, una legge dello Stato controversa – e ancora non
approvata - che mira a disciplinare l’abbigliamento dei dipendenti pubblici
mettendo al bando i simboli religiosi “sconvenienti”, in nome della parità tra
uomo e donna e della neutralità dello stato laico. Una discussione snervante,
ma soprattutto lontana anni luce dalla cruda realtà, che vede la società
quebecchese fare della diversità
religiosa, a casa come al lavoro, un valore aggiunto, una fonte di ricchezza,
una prova di maturità. La verità è che, ancora una volta,
l’interesse generale passa in secondo piano, schiacciato dall’opportunismo
politico di un partito che ha priorità diverse da quelle di chi affronta ogni
giorno una realtà fuori dagli slogan e da progetti tanto idealistici quanto
anacronistici. In una parola: fuori dalla storia. Il PQ ha gettato la maschera,
rivelando l’obiettivo che gli sta veramente a cuore: incassare la maggioranza
parlamentare per rafforzare la questione identitaria e magari rispolverare
anche le velleità indipendentistiche. Puntando, quindi, su provvedimenti
ritenuti ‘sine qua non’, come la Carta dei valori ed il ‘Libro bianco’
sull’avvenire della
Belle Province:
temi sui quali, fino a ieri, c’è stato il “veto” dei partiti di opposizione. Un
argine parlamentare, l’ultimo, che potrebbe crollare, se il 7 aprile gli
elettori daranno alla Marois un mandato pieno e incondizionato. In questo caso
sarebbe il popolo sovrano l’ultimo baluardo contro la deriva indipendentista
del PQ: secondo un recente sondaggio di Radio Canada, solo il 39% direbbe sì,
contro il 61% schierato per il no. Se lo stesso risultato fosse confermato da
un eventuale referendum, sarebbe il terzo tentativo andato a vuoto, dopo quelli
dell’ ‘80 e del
‘95.
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